Strumentalizzazione dei femminicidi in funzione del ricooscimento del feto come “persona a partire dal concepimento”

21 Gennaio 2024

Sul femminicidio di Vanessa Ballan, così come successe con Giulia Tramontano. si stanno scatenando provita e FdI sulla questione aborto. Nei femminicidi incontriamo diversi aspetti problematici nella narrazione: dalla loro rappresentazione, all’omissione nel nominarli come “femminicidi”, alla strumentalizzazione dei femminicidi per fini diversi. Per il femminicidio di Vanessa Ballan ben 7 articoli sui 16 che […]

IL CASO GIUDIZIARIO DI BRESCIA E L’IN/GIUSTIZIA PATRIARCALE

8 Novembre 2023

SORELLA IO TI CREDO”: non è uno slogan di Non Una Di Meno né un cieco atto di fede, ma nasce dalla consapevolezza di quanto le parole delle donne siano travisate, svalutate e attribuite alla “femminile” tendenza ad esagerare, anche quando si rivolgono ai tribunali per avere giustizia, denunciando ogni tipo di violenza maschile di natura fisica e psicologica; violenze che spesso coinvolgono anche i loro figlie/figli. 

A dimostrazione di questo è esemplare il recente caso giudiziario, con risonanza nazionale, relativo alla denuncia per violenza domestica di una donna bengalese nei confronti del suo ex-marito in provincia di Brescia.

Riportiamo quindi le parole della giovane che, nel 2019, ha trovato il coraggio di denunciare gli abusi del marito, e che così ha commentato la prima proposta di assoluzione per l’uomo proposta dal PM: “Dov’è la giustizia e la protezione tanto invocata per le donne, tra l’altro incoraggiate a denunciare al primo schiaffo? Oppure il fatto che io sia una bengalese tra tante, mi rende di meno valore davanti a questo PM?”, aggiungendo “Sono stata trattata da schiava, picchiata, umiliata. Costretta al totale annullamento con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh”. Inoltre l’ex-marito le ha imposto di abbandonare gli studi dopo la prima gravidanza, costringendola a vivere segregata in casa.

Un mese fa il pubblico ministero, suscitando la disapprovazione generale e conquistando l’interesse dei media, aveva chiesto l’assoluzione dell’uomo perché “i presunti maltrattamenti erano il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge». Il 17 ottobre il tribunale di Brescia ha accolto la richiesta di assoluzione del PM Antonio Bassolino, e scagionato l’uomo di origini bengalesi Hasan MD Imrul dall’accusa di maltrattamenti sulla moglie con la formula “ il fatto non sussiste”. È stato infatti lo stesso PM a depositare una memoria, spiegando che «esaminati gli atti, (il pm) rivaluta la precedente richiesta e la riformula chiedendo l’assoluzione perché il fatto non sussiste, poiché il reato di maltrattamenti contestato difetta del requisito dell’abitualità». Quindi, per la legge o per i suoi interpreti, se la violenza non e’ abituale, non e’ tale: le denunce della donna e della sua legale sono parole al vento non corrispondenti a fatti reali. Infatti, alla notizia dell’assoluzione, l’avvocata Valeria Guerrisi, difensora della donna, ha dichiarato “Ancora violenza senza tutela. Le donne maltrattate non denunceranno più.”

Se la prima proposta di assoluzione del PM ha fatto scalpore per la sua indifendibilità, l’assoluzione perché “il fatto non sussiste” non ha suscitato clamore mediatico, ma è stata considerata “a norma di legge” e si è tradotta in scarsa credibilità della donna e di debole fondatezza delle sue denunce. Sappiamo essere pratica comune, dentro e fuori i tribunali, quella di mettere sotto accusa le donne vittime di violenza, oltre a non dar loro né voce né giustizia né tanto meno credibilità. Altre volte la donna che denuncia non solo non ottiene giustizia, ma finisce sotto accusa.

Sia nella prima che nella seconda richiesta del pm, è chiara la poca considerazione della gravità del caso: il dolore e le violenze subite dalle donne, come la loro impossibilità di autodeterminarsi, sono questioni da archiviare, di poco conto. Secondo i dati ISTAT in Italia 8 donne su 10 non denunciano la violenza di genere; l’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali ci dice che solo il 14% delle donne denunciano gravi aggressioni da parte del proprio partner. Quando le donne trovano il coraggio di denunciare episodi di violenza di genere, più di un quarto di queste denunce vengono archiviate e solo il 10% degli abusanti riceve una condanna. Sempre l’ISTAT ci consegna questo dato: il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini non partner; il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato innumerevoli volte l’Italia “per il suo perseverare nella gestione dei processi in modo apertamente patriarcale”. Citando la sentenza del 27 maggio 2021: “E’ essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”. In maniera inequivocabile la sentenza denuncia che “le donne dovrebbero poter contare su un sistema giudiziario libero da miti e stereotipi, e su una magistratura la cui imparzialità non sia compromessa da questi presupposti di parte”, sottolineando che “l’eliminazione degli stereotipi giudiziari nel sistema giudiziario è un passo cruciale per assicurare uguaglianza e giustizia per le vittime”.

Il sistema giuridico patriarcale proprio dell’Italia dimostra la mancanza di distinzione giuridica tra liti familiari (un contesto tra pari) e violenza domestica (in un continuativo contesto di sopraffazione): regna una profonda ignoranza sulle dinamiche di potere nei rapporti di genere, corroborata da una cultura giuridica costruita per salvaguardare i privilegi maschili. Esiste quindi una grande difficoltà nel riconoscere, anche da parte delle istituzioni giudiziarie, la gerarchia di genere (l’uomo comanda e decide, la donna ubbidisce e sopporta) e dei ruoli stereotipati nell’ambito familiare (ad esempio gli uomini lavorano e guadagnano, le donne stanno a casa con i figli), che per quanto possano intendersi ormai obsoleti nella realtà sociale, sono propri della struttura di potere patriarcale. 

Gerarchia di genere e Ruoli stereotipati sono condizioni preliminari, normalizzate culturalmente, e sostrato identitario della violenza visibile (lesioni, violenze e femminicidi). Si tratta di chiavi di lettura che definiscono la relazione tra i sessi, introiettate culturalmente da uomini e donne appartenenti ad ogni ambito sociale, professionale e geografico, a tal punto da portarci a ritenere che le limitazioni della libertà della donna (ad esempio la sua libertà ad autodeterminarsi e rendersi indipendente economicamente), e le umiliazioni cui è costretta, siano un fatto “naturale” e quindi che non necessitino di approfondimento. Questo avviene quando per normali liti familiari si intendono quelle generate dal potere di un uomo nello stabilire le regole comportamentali esplicite o meno alle quali la donna è costretta, poiché si ritiene normale che questa rinunci ad ogni aspirazione di libertà quando fa scelte in contrasto con la volontà maschile, e funzionali al proprio benessere. L’effetto devastante di questa inconscia e millenaria abitudine culturale, costruita su un impianto giuridico volto a difendere sempre il potere patriarcale, porta a sentenze come quella citata inizialmente: lo Stato non riconosce l’emergenza, il dolore e la violenza quando queste vengono agite nel perimetro delle relazioni familiari, perpetrando l’oppressione sistemica da cui le persone socialmente femminilizzate cercano di liberarsi rivolgendosi all’unico organo istituzionale che dovrebbe aiutarl3 a farlo. Ma questo non succede, anzi la tendenza è quella di minimizzare, archiviare e assolvere i maltrattanti.

Quando la discriminazione di genere viene espressa attraverso una sentenza emessa in nome dello stato, questa discriminazione si traduce in un ordine legittimo (anche se ingiusto e arbitrario ) che consente agli uomini di esercitare impuniti il loro potere all’interno del contesto familiare e sociale, negando alle donne il diritto di autodeterminare la loro vita e di liberarsi dai loro oppressori.

LA SORELLANZA È LA NOSTRA FORZA CONTRO L’INGIUSTIZIA DEI TRIBUNALI

SMASCHERIAMO L’IMPIANTO PATRIARCALE DI TUTTA LA CULTURA GIURIDICA

METTIAMO IN DISCUSSIONE OGNI SENTENZA CONTRO I DIRITTI DELLE DONNE E DELLE SOGGETTIVITA’ OPPRESSE

Toccherà a me ora? 

7 Novembre 2023

Siamo l’Osservatorio Nazionale di Non una di meno per il monitoraggio e il contrasto di Femminicidi, Lesbicidi, Transcidi, Infanticidi, Suicidi di stato e dell’odio sociale e Puttanocidi. Non facciamo gerarchie o classifiche tra le persone uccise dalla violenza di genere e da quella istituzionale o dell’odio sociale come purtroppo avviene nella narrazione dominante. Il corpo […]

Femminicidio di Stato

TW violenza, morte /abusi

Il femminicidio di Concetta Marruoco diventa un caso esemplificativo di come le leggi attuali sul contrasto alla violenza di genere siano completamente vuote quando non palesemente disattese. Senza alcuna remora dovremmo definirli femminicidio di Stato come negli altri casi in cui le persone vittime di violenza sono rimaste intrappolate nelle maglie burocratiche della giustizia senza avere alcuna protezione.

Il mantra sulla violenza di genere è attenersi alla Convenzione di Istanbul e la legislatura attuale in merito alla “prevenzione e contrasto alla violenza di genere” ci rimanda al Dl 62 /2019 codice rosso e al dl 122/2023 codice rosso rafforzato a firma Nordio/ Roccella/ Piantedosi composto da un solo articolo che integra il precedente decreto ma di fatto l’impianto decade nella realtà.

Se una donna su 7 nel 2017/2018 è stata uccisa per femminicidio dopo aver denunciato, il 15% di questi delitti si possono ritenere femminicidi di stato. Ci chiediamo come mai, avendo attivato i canali suddetti, il codice rosso, l’ultima integrazione che riguarda l’iter immediato del giudice di raccogliere le informazioni e avviare subito la procedura dopo tre giorni, il tempo di denuncia allungato fino a 12 mesi dai fatti e il dispositivo “braccialetto” elettronico siamo ad una media di 120/140 femminicidio l’anno.

Nei 4 casi di femminicidio avvenuti nelle Marche nel 2023, due avevano già fatto una denuncia e l’ultima, Concetta Marruocco, aveva attivato tutto l’iter previsto. Abbiamo ripercorso a ritroso le tappe degli ultimi mesi cercando di fare luce sui vuoti che sono il nesso con la violenza di stato patriarcale.

Concetta Marruoco, dopo circa 20 anni di umiliazioni e violenza fisica domestica, denuncia il suo ex e da questo momento entrano in gioco tutti i soggetti istituzionali che dovrebbero tutelarla nel percorso di fuoriuscita. Ma per lei inizia il conto alla rovescia di sette mesi che terminerà con la sua morte.

Concetta è infermiera in un ospedale a Matelica (MC). Il sindacato si attiva per conservarle il posto di lavoro (diversi contratti nazionali di lavoro tutelano chi subisce violenza domestica), costrettə com’è dalle percosse subite prima, dall’accoglienza in casa rifugio poi, a fare diverse assenze. È il sindacato ad incoraggiare Concetta a rivolgersi alle istituzioni per uscire dalla violenza domestica.

Concetta fa tutti i passaggi del DL 69/2019 e si attiva il codice rosso. Una volta effettuata la denuncia vengono attivati comune e servizi sociali, che affiancano Concetta ed il minore che ha a carico. Lo sportello antiviolenza Artemisia di Fabriano che era stato precedentemente attivato dal sindacato presso il quale era iscritta Concetta, la prende in carico e la segue legalmente per 5 mesi. 

Sarà inserita in un programma di protezione in una casa rifugio, mentre si avvia l’iter per violenza domestica e viene allontanato l’abuser. Il 21 agosto, con tutti i canali attivati, rientra nel suo domicilio, sicura di essere protetta. Da lì a poco ci sarà la prima udienza: https://www.corriere.it/cronache/23_ottobre_18/sorella-concetta-marruocco-uccisa-marito-82de46ec-6d27-11ee-8916-b147ab1385f6.shtml

Si arriva al 13 settembre, quando all’ex marito viene posto il braccialetto elettronico che avrebbe dovuto essere un deterrente ad un avvicinamento pericoloso per l’incolumità della persona lesa, stabilito in 200 metri. Il braccialetto viene assicurato anche a Concetta e al loro figlio minore che abita con lei, anche lui vittima della violenza dell’uomo.

Ma il braccialetto elettronico non funziona come dovrebbe. Il malfunzionamento viene più volte segnalato alle forze dell’ordine da Concetta, dai suoi parenti, dal figlio minore, dallo sportello antiviolenza di Fabriano e, paradossalmente, addirittura dal violento. Le segnalazioni cadono nel vuoto. Più volte l’abuser riesce a stalkerare Concetta senza che nessuno intervenga. Ed è qui che non si capisce perché il giudice non sia intervenuto immediatamente per far rispettare gli obblighi di legge e per sostituire il dispositivo.

Concetta rimane in balia degli eventi, nonostante l’ex palesi anche sui social l’astio verso di lei, nonostante lo esternasse a tutti i suoi amici. Chi era istituzionalmente legittimato e obbligato ad intervenire non fa assolutamente nulla. 25 giorni dopo Concetta viene uccisa con 40 coltellate. Le forze dell’ordine si presentano quando ormai non c’è più nulla da fare per Concetta.

“Un femminicidio annunciato” si dirà a caldo nelle ore successive, il sindaco e i servizi sociali parleranno di una situazione familiare nota da tempo in cui si è fatto tutto il possibile. Ma la denuncia viene dallo sportello antiviolenza che l’aveva in carico, parole pesanti come macigni che testimoniano che il femminicidio di Concetta poteva essere gestito in maniera diversa se solo si fossero intraprese le azioni di protezione verso la donna e si fossero ascoltate le segnalazioni ripetute fatte nel periodo precedente il suo assassinio. Concetta ha creduto nelle istituzioni ma è stata tradita lasciando il fardello più grande all’associazione anti violenza che l’ha sostenuta fino alla fine.

Si è discusso tanto del braccialetto elettronico come se fosse il nodo del problema invece di guardare tutto l’impianto che Concetta aveva attivato e che è stato mancante. Così come tutte le persone vittime di violenza, Concetta non voleva essere vittima ma sopravvissuta, e ha combattuto per avere una vita. Ha attivato tutti i canali che poteva, si è attenuta a tutti gli step, passo dopo passo, ma è tornata al punto di partenza con l’abuser sempre alle spalle, che continuava a girare tranquillamente intorno a casa sua sapendo che il sistema lo avrebbe legittimato. È questo che si dimentica: Concetta non è stata creduta nella sua paura di essere uccisa. Il caso assomiglia purtroppo a tanti altri casi di femminicidio. Il copione è lo stesso: dai servizi sociali ai tribunali per passare alla polizia si incontra una filiera immobile davanti alla violenza di genere.

Le donne non vengono credute.

Il braccialetto elettronico è stato introdotto nel 2005 ma non vi è un report sulla sua efficacia né sulla copertura di rete. Dal 2019, con la legge 69/2019 ovvero il codice rosso, viene utilizzato per i reati di violenza di genere. L’appalto statale dato a Fastweb dovrebbe garantirne l’efficienza. I casi di malfunzionamento che mettono in pericolo le persone coinvolte, sono stati registrati in diverse regioni.

Un anno fa c’è stata un’ interrogazione parlamentare per sapere quanti erano i dispositivi attualmente attivi e verificarne la loro efficienza in termini di prevenzione. Non è stata data alcuna risposta. Non vi è nessuna relazione in merito.

Il 30 settembre entra in vigore il testo sul codice rosso rafforzato (dl 192) che conferma il braccialetto elettronico quasi fosse la soluzione alla violenza di genere. Neanche una decina di giorni dopo questa fiducia fatua viene da più parti smentita.

Di seguito alcuni casi in cui non ha funzionato il braccialetto elettronico:

Il dispositivo non va. Ma anche se funzionasse bene non c’è dispositivo che tenga se tutto l’impianto è patriarcale. Scaricare sulle donne il manuale delle tappe della denuncia della violenza significa fare splaining e addossargliene la responsabilità.

Chi ha cercato disperatamente come una corsa contro il tempo di sventare ciò che è accaduto il 14 ottobre sono stati i familiari, la sorella, lo sportello antiviolenza, lo stesso vicinato che ha cercato di presidiare la sua abitazione segnalando ogni volta che l’abuser era sotto casa.

Concetta Marruocco è una vittima dello Stato e a proteggerla si è attivata la comunità intorno a lei. Doveva essere salvata.Il vuoto delle istituzioni è riconducibile a quelle denunciate nel “violador en tu camino”: lo Stato, i giudici, le forze dell’ordine.

Y la culpa no es la mía.

VI RICORDATE?

7 Giugno 2023

Vi ricordate di Ambra uccisa con 40 martellate? O di Francesca, violentata, picchiata, strangolata e abbandonata in un campo? Forse no. Ma era il 2020 ed è passato un po’ di tempo.
Invece di Carol vi ricordate? È stata presa a martellate, sgozzata, fatta a pezzi, messa in freezer e poi abbandonata in un fosso.
Forse neanche di lei ci si ricorda. Anno 2021.
Cinzia uccisa a bottigliate? Maria uccisa a forbiciate e schiacciata?
Ancora no? È il 2022. L’anno scorso. Non è passato tanto.
Pierpaola uccisa con un’arma d’ordinanza? Yerelis uccisa con percosse, coltellate e soffocata?
No? Eppure loro sono state uccise quest’anno, una nello stesso giorno di Giulia.
E di Giulia per quanto tempo vi ricorderete?
Dal 2020 la mano patriarcale di compagni, mariti, ex ha spazzato via 431 vite di donne, persone trans, figlə e persone coinvolte.
431
La violenza non si arresta.
Anche se in alcuni casi i media si soffermano di più su una storia piuttosto che su un’altra, quasi ci fosse una classifica, niente cambia.
Ci soffocano, ci accoltellano, ci sparano, ci stuprato, fanno ciò che vogliono dei nostri corpi e delle nostre vite e di quelle di chi resta.
Siamo carne da macello per la mano patriarcale che impone il suo potere violento non sapendo affrontare un rifiuto, un no, un incarico di cura, non sapendo affrontare l’autodeterminazione di donne e libere soggettività.
Siamo carne per i media che scandagliano le nostre vite in cerca di un perché.
Siamo numeri alla fine dell’anno per uno Stato che non muove un dito per modificare la cultura dominante, che non ha mai abbastanza soldi per i centri antiviolenza e per il sociale.
Qua nell’Osservatorio contiamo, ascoltiamo, leggiamo, discutiamo con rabbia, tanta rabbia e con l’amore che contraddistingue ogni sorellanza.
Vogliamo ribaltare un sistema che conta le morti e le violenze, ma non vuole riconoscere la radice da cui provengono.
La stessa radice che vogliamo estirpare per contarci vivə, per fare delle nostre vite ciò che desideriamo.
I desideri fanno paura perché muovono corpi e menti.
Ci volete in silenzio, ci volete compostə.
Noi invece urliamo con voci e corpi e il nostro grido è universale.
Venite a guardaci bene negli occhi, non faremo un passo indietro.

NUDM Cagliari

NEL NOME DI GIULIA, PIERPAOLA, YERELIS E DI TUTTE L3 ALTR3

Più il femminicidio è efferato e più compare la lucida determinazione dell’uccisore che, spinto dall’odio misogino, dalla furia annientatrice, dal timore di essere abbandonato da una donna che considerava suo possesso o dalla volontà di eliminare una storia ormai diventata ingombrante, ha ucciso con freddezza, ha creato falsi indizi, ed infine ha consapevolmente tentato di far sparire il cadavere (mutilandolo, nel caso di Carol Maltesi; tentando di bruciarlo (nel caso di Giulia Tramontano) per cancellare ogni traccia dell’identità fisica della vittima,impedendo anche a tutt* coloro che hanno amato la donna uccisa di piangere su un corpo riconoscibile e creando nuovo dolore, nello strazio di una perdita assurda e crudele.

Molte volte nella narrazione di questi crimini i media parlano di follia, di raptus improvviso escludendo la feroce premeditazione,la consapevolezza delittuosa, i rapporti di prepotenza e dominio nella relazione, la disparità di potere. Ritengono estrane a ogni dimensione umana tanta crudeltà rivolta a compagne di vita che attendevano un figlio desiderato, come Giulia, che lasciavano figli come Carol, che esprimevano gioia di vivere e che non potevano certo aspettarsi da un uomo che avevano amato o amavano una fine così orribile.

Nel processo celebrato in questi giorni a Busto Arsizio, in provincia di Milano, contro DAVIDE FONTANA, assassino di Carol Maltesi, che l’ha uccisa, fatta a pezzi e conservata in un freezer per due mesi per poi gettarla in sacchi neri, è stata negata ogni attenuante al femminicida. Chiare sono le parole della psicopatologa forense – chiesta, come accade spessso, dalla difesa per attenuare le responsabilità dell’accusato – “La valutazione psicodiagnostica ha confermato l’assenza nell’esaminato di indicatori di natura psicopatologica, mettendo a fuoco risorse cognitive ed esecutive di buon livello e alcuni aspetti di fragilità personale che non è possibile negare, ma che non si inseriscono in un quadro di disturbo di personalità e che dunque non assumono valore di malattia né tantomeno di infermità mentale.”

QUINDI, si tratta di un assassino fornito di RISORSE PER UCCIDERE, DISFARSI DEL CORPO, SVIARE LE INDAGINI, CONTINUARE LA PROPRIA VITA DOPO AVERNE RECISO UN’ALTRA.

Sono esecuzioni premeditate quelle avvenute in questi ultimi giorni: quella di GIULIA, incinta di sette mesi, accoltellata dal suo compagno smascherato nella sua doppia vita; di PIERPAOLA, freddata nell’androne di casa da un collega con cui aveva avuto una relazione che lei aveva deciso di interrompere, e che si è suicidato subito dopo averla uccisa. Pierpaola aveva scoperto di avere un cancro al seno e il giorno della sua morte avrebbe dovuto iniziare la chemioterapia, ignara che un nemico peggiore del cancro avrebbe messo fine ai suoi giorni con un colpo di pistola.

C’è violenza patriarcale e furiosa premeditazione nel gesto del padre di 86 anni che uccide la figlia Marianna Formica, investendola con la sua auto dopo un litigio per motivi familiari.

Anche nel caso di Yrelis Natividad Santana, madre di tre figli, brutalmente assassinata da un giovane della buona società che si era presentato all’incontro armato di coltello con cui ha messo fine alla sua vita. A quest’ultimo femminicidio si è dato scarso rilievo mediatico, seguendo una logica classista, razzista e misogina come se la vita di Yrelis, latina, razzializzata e sex worker avesse meno valore di quella di altr3 uccis3. Come se esistessero femminicidi di serie A e di serie B e come se la maternità stessa fosse da esaltare o da non menzionare, a seconda di chi la incarna.

Nel femminicidio di GIULIA TRAMONTANO di cui i media si sono appropriati in una continua, sensazionalistica, narrazione, l’unica nota rilevante è la solidarietà che si è manifestata nell’incontro tra Giulia e A., l’altra donna che aveva una relazione con il femminicida ALESSANDRO IMPAGNATIELLO. Come emerge dalle parole di A., che ha incontrato Giulia poche ore prima del suo assassinio, “il nostro incontro è stato veramente cordiale… appena ci siamo viste, ci siamo abbracciate per solidarietà femminile, perché entrambe vittime di un bugiardo”. Sorellanza, non antagonismo, consapevolezza comune di essere vittime di un traditore che avevano invitato a chiarire, in presenza di entrambe, la propria posizione. E il senso di un pericolo comune, con l’offerta parte di A. a Giulia di dormire a casa sua, il suo rifiuto di far entrare in casa l’assassino, il timore per ciò che poteva essere accaduto a Giulia.

La “banalità del male” e l’assoluta mancanza di pentimento si esprime nelle dichiarazioni del femminicida “ho ucciso Giulia perché ero stressato per la gestione della doppia storia”. Come se questo potesse spiegare la montagna di inganni, il falso dna del figlio atteso per disconoscerne la paternità, gli ingannevoli sms a nome di Giulia, la spietatezza dell’uccisione, la ricerca in internet sui modi per far sparire il cadavere. Un individuo narcisista, manipolatore, disposto al crimine per liberare la sua miserabile esistenza da una storia che doveva finire con la soppressione della sua compagna incinta al settimo mese.

Dall’altra parte il dolore di quell3 che restano; gli appelli accorati della madre e della sorella attraverso i media quando ancora speravano in una fuga di Giulia, la disperazione di tutta la famiglia davanti alla confessione del femminicida che li haprivat3 di unafiglia, di una sorella, di un futuro nipote desiderato. E ancora, la disperazione senza conforto di Sabrina Fortis, la madre di Alessandro Impagnatiello, che chiede scusa per aver messo nel mondo un mostro, unica definizione che sa trovare per suo figlio.

Quanto dolore sconosciuto dietro ogni femminicidio, che non sarà mai illuminato dall’informazione perché non fa audience né profitto, quante persone la cui vita é stata spezzata, quante figli3 rimast3 orfan3, quanto dura l’esistenza per l3 sopravvissut3 e per chi dovrà prendersene cura. Quanto poco aiuto da parte di stato e governi che esaltano la maternità solo per contrastare il nostro diritto di scelta e di autodeterminazione, ma si voltano dall’altra parte davanti all3 figl3 che esistono.

L’Italia non ha più una Commissione d’inchiesta sui femminicidi, attiva dal 2017 fino all’insediamento del governo MELONI il 22 ottobre 2022. E proprio ora il governo utilizza l’emozione creata dal femminicidio di Giulia Tramontano per trasformare il feto in soggetto di diritto e negare l’autoderminazione delle donne. Il leader del family day e consulente antidroga per il governo Meloni, Massimo Gandolfini, dichiara che “l’essere umano è tale dal momento del concepimento, e come tale deve essere trattato”, e che “uccidere un essere umano – non importa se ha due o tre settimane di vita gestazionale – è sempre un omicidio”, rilanciando la proposta GASPARRI per un “disegno di legge che riconosca la personalità giuridica del concepito”.

USARE IL FEMMINICIDIO DI GIULIA TRAMONTANO PER ATTACCARE L’ABORTO È L’ENNESIMA VIOLENZA SUI NOSTRI CORPI!

CI VOGLIAMO VIV3 E LIBER3

BASTA CON I FEMMINICIDI E I TRANSICIDI, BASTA CON LA VIOLENZA DI GENERE! SORELLANZA DI LOTTA CONTRO IL PATRIACAL CAPITALISMO CHE SFRUTTA E UCCIDE!

COME OGNI 8 DEL MESE SCENDIAMO NELLE PIAZZE CON AMORE E RABBIA INNALZANDO UN URLO ANCORA PIÙ ALTO E FEROCE PER TUTT3 QUELL3 CHE PIÙ NON HANNO VOCE

Renata

Una tragedia annunciata

8 Gennaio 2023

Una tragedia annunciata. Un crudele e cruento femminicidio indiretto per rendere indelebile il dolore di una donna ERICA PATTI, attraverso l’uccisione e il rogo dei due figli ANDREA e DAVIDE di 13 e 9 anni da parte del padre Pasquale IACOVONE, il 16 luglio 2013 a ONO SAN PIETRO ,in provincia di Brescia ,come atto di punizione verso la madre che aveva osato separarsi da lui, uomo violento, e vivere la sua vita.

Questo libro rivela anche il coraggio incredibile di una donna, ERICA PATTI, che è riuscita a sopravvivere e a raccontare la sua storia dopo essere passata attraverso un dolore che artiglia il cuore e i tentativi disperati di raggiungere i suoi figli in un porto di morte. Una donna capace di dare vita nel 2015 al gruppo di aiuto DIECI (chiamato così dal numero delle sue denunce contro l’ex marito) per donne che subiscono violenza di genere, e di trasformare la sua storia in un libro potente e in una testimonianza sconvolgente e illuminante per altre donne che forse stanno percorrendo una strada senza uscita simile alla sua. “Un gesto fatto in un momento di rabbia tornerà, ancora e ancora, sempre più offensivo, sempre più pesante, sempre più pericoloso.”

A partire dal primo incontro con Pasquale: “Quando l’ho visto la prima volta ho pensato che fosse bellissimo, che sembrava un fotomodello e che mi sarebbe piaciuto conoscerlo”. Ai primi segnali di violenza sottovalutati “mi riempiva di regali… Ho cominciato sempre meno a uscire con la grande compagnia di amici di cui facevo parte. In un paio d’anni vedevo lui e le persone che piacevano a lui… Però ero innamorata, mi andava bene”. E ancora “già allora sentivo l’oppressione di quel ragazzo che un po’ alla volta rubava spazio alla mia libertà.” Poi il primo di tanti gesti violenti e minacciosi ripetuti nel corso degli anni “mentre litigavamo, … lui mi ha spinto contro al muro e mi ha messo le mani al collo.”

LA MANCATA CONSAPEVOLEZZA: “A quel gesto non ho dato il peso che avrei dovuto, ho pensato che fosse stato un episodio che non si sarebbe ripetuto, ma ero innamorata e restavo, ascoltavo, subivo,mi dicevo “tanto poi gli passa, al disprezzo per la sua capacità di giudizio e di autoderminazione “sarà qualcuna che ti ha messo in testa quest’idea” per assumere il controllo totale sulla sua vita.

In seguito ci sono state le due maternità e l’amore per i figli Andrea e Davide, mentre si intensificavano gli insulti, la violenza economica, verbale e fisica di PASQUALE IACOVONE estesa alla famiglia di origine di Erica che lo aveva inizialmente accolto con affetto. Infine il coraggio di dire basta e la separazione legale nel 2010 con l’affidamento congiunto dei due figli che mantengono la residenza presso la madre. Da questo momento l’inizio, come lo definisce Erica , del mio incubo peggiore, dello stalking, degli insulti, delle minacce dei tentativi di buttarla fuori strada e di strangolarla, gli sms ad ogni ora del giorno e della notte nei confronti di Erica sempre più esposta alle violenze dell’ex marito perché entrambi vivevano nello stesso paese di 1000 abitanti ONO SAN PIETRO dove per lui è sempre facile, spiarne la vita, controllarne le frequentazioni, prendersi i figli a piacere aldilà degli accordi, minacciare il nuovo compagno e lanciarle nella rabbia la minaccia “Tu i tuoi bambini li vedrai solo sulla foto di una lapide”.

Il 2 luglio 2012 la prima denuncia di Erica che, per tutelare i figli, si era astenuta da ogni ricorso ai tribunali, contro l’ex marito a cui seguono altre denunce circostanziate fino al 7 gennaio 2013 col divieto per IACOVONE di avvicinamento motivato dal documentato comportamento violento verso l’ex moglie, la sua famiglia, il suo nuovo compagno. 

E giungiamo all’epilogo di questa tragedia annunciata. Erica chiede la revisione degli accordi di separazione rispetto all’affidamento congiunto, revisione a cui nell’udienza del 3 luglio 2013 lo IACOVONE si oppone, il giudice si riserva la decisione e il padre ha diritto, in base agli accordi precedenti di tenere i figli ancora con sé per altri 15 giorni. Erica non rivedrà mai più i suoi figli. ANDREA fa sapere alla mamma che sarebbero tornati da lei la domenica 7 luglio, ma non accade. Il giorno successivo angosciata ERICA chiama l’avvocato e l’assistente sociale perché non riesce a contattare i bambini, ma l’assistente sociale si preoccupa solo di sapere se il padre potrà sentirli quando saranno in vacanza con lei “ non mi sentivo tutelata, dopo aver ricevuto minacce di morte sia io che i miei figli, essere stalkerizzata 24 ore su 24, non avere la possibilità’ di sentire i tuoi figli quando sono con lui e per tutta risposta la frittata viene girata”

Siamo al 16 luglio 2013 il giorno in cui ANDREA E Davide vengono assassinati, prima soffocati e poi bruciati nel fuoco appiccato dal padre “quello a cui loro volevano tanto bene e di cui si fidavano”. LO SAPEVO GIÀ PRIMA DI SAPERLO : “ME LI HA AMMAZZATI” sono le parole straziate di ERICA quando le giunge la notizia che qualcosa è accaduto ai suoi figli. Il suo dolore è atroce mescolato al senso di colpa per non averli potuti salvare e alla rabbia verso le istituzioni che col senno di poi come ha poi dichiarato una funzionaria, avrebbero dovuto agire diversamente, darle credito e salvare la vita ad Andrea e Davide. Il corpo di Erica entra in una specie di agonia, tormentata dal ricordo della fine orribile dei figli i cui corpi non ha nemmeno potuto vedere , stato da cui esce , dopo due anni, con le sedute della terapia EMDR, una terapia che consiste nella rielaborazione delle informazioni immagazzinate nel cervello attraverso la stimolazione bilaterale oculare che permette in qualche modo di elaborare un trauma che altrimenti torna in mente in modo disordinato e provoca flash back, incubi, angoscia, accessi di collera, ripiegamento su se stessi, incapacità’ di vivere.

Finalmente in una delle ultime sedute vede i figli non più dietro un muro, ma davanti a sé che la invitano ad essere libera, promettendo di starle sempre accanto ed in quel momento” capisco di essere pronta a diventare di nuovo mamma” .Riccardo è nato il 12 settembre 2018 e lo accompagnano le parole di ERICA a chiusura del libro “RICCARDO deve crescere senza sentirsi addosso il peso della mia, della nostra tragedia. Ci sarà poi il tempo per spiegargli, per raccontargli tutto.”

Il 12 novembre 2022 alla fiera della micro-editoria di Chiari, in provincia di Brescia, ho ascoltato la presentazione di questo libro che già conoscevo dalla stessa ERICA PATTI che con grande forza e sicurezza ha risposto alla domanda sul perché lo ha scritto. Ecco i suoi tre motivi

1 “perché i miei figli non siano morti invano e siano sempre presenti

2 perché tutti sappiano che ho percorso tutte le strade della denuncia a tutte le istituzioni, ma che tutto questo non è servito a salvare i miei figli

3 perché altre donne imparino dalla mia storia a porre attenzione ai sintomi di violenza, talvolta giustificati in nome dell’amore, ma che poi diventano brutalità senza fine”

Il libro è anche una raccolta documentata di denunce e di atti giudiziari che sono antecedenti e successivi a questo figlicidio e femminicidio indiretto, che illuminano sullo scarso peso che ancora si da’ alla testimonianza delle donne sulla violenza domestica e territoriale e sul rischio di morte per donne, figli e figlie, soprattutto dopo una scelta di separazione e di come la legge, i suoi esecutori ed esecutrici siano portatori e portatrici di una visione ancora patriarcale dei rapporti e dei diritti. Ci dicono anche che ERICA non ha lasciata intentata alcuna strada “ aveva denunciato, segnalato e chiesto aiuto ottenendo risposte, col senno di poi, risposte certamente inadeguate”. Queste ultime sono parole del magistrato Fabio Roia del tribunale di Milano che scrive una prefazione al libro e denota come in un indagine condotta dalla COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA sul femminicidio per il biennio 2017-2018 emerge che su 211 femminicidi soltanto 29 donne avevano in precedenza denunciato cioè il 15% del totale. E sempre ROIA aggiunge una considerazione molto importante:

ANDREA e DAVIDE portano il cognome di chi li ha uccisi. È una sorta di condanna perenne e una sottile forma di riabilitazione per l’omicida. Esiste una particolare procedura per il cambiamento del cognome, ma soltanto per chi si trova ancora in vita.”

“Quel cognome dovrebbe immediatamente scomparire dai nostri registri perché la violenza non puo’ più essere tollerata a qualsiasi latitudine della vita. 

Neanche su una tomba bianca”

ERICA PATTI “COL SENNO DI POI” LIBEREDIZIONI

UCCISI E BRUCIATI DAL PADRE. LA MADRE RACCONTA LA STRAGE DI ONO SAN PIETRO

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